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波の上および下

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alle 19.00 del giorno di ferragosto del 1945 (un giorno prima per l’ora di washington), il presidente harry truman annunciava al mondo la fine della seconda guerra mondiale.
dal 7 dicembre 1941 gli stati uniti avevano combattuto una dura guerra contro un avversario temibile che aveva inflitto dolorose perdite alle forze alleate. a quella notizia così attesa, ne seguì un’altra che passò inizialmente quasi inosservata ma che in seguito scatenò ondate di sdegno tra l'opinione pubblica e causò un vero terremoto ai vertici dalla marina americana.

con 25 scarne parole, la us navy annunciava la più grande catastrofe navale dell’intera storia degli stati uniti (escludendo pearl harbour), l’incrociatore “indianapolis” era affondato e con esso erano scomparsi 900 uomini di equipaggio.

sino ad allora il maggior numero di perdite umane riferite all’equipaggio di una sola nave erano state quelle della portaerei “franklin” colpita da un aereo kamikaze durante le operazioni di iwo jima. in tale occasione si erano registrati 772 morti ma nonostante questo, la nave fu salvata. altri gravi affondamenti erano stati quello dello “juneau”, un incrociatore affondato dal sommergibile giapponese i-26 a guadalcanal nel 1942 e del quale si ebbero solo 11 superstiti su 687 uomini di equipaggio e, quello della “liscome bay” una portaerei saltata in aria con 644 uomini dopo essere stata silurata dall’i-175.
quella dell’indianapolis però era una tragedia sotto certi aspetti più grave. la maggior parte dei morti infatti non fu causata dall’affondamento ma bensì dai clamorosi ritardi nei soccorsi.
l’indianapolis (ca-35), incrociatore classe “portland” quale evoluzione della precedente classe “northampton”, fu impostato il 31/3/1930 e varato il 7/11/1931 nei cantieri new york shipbuilding a camden (new jersey). al termine dell’allestimento, il 5/11/1932 l’unità fu consegnata alla us-navy. lungo 186,2 metri e largo 20,1, dislocava 12.600 tonnellate a pieno carico. l’apparato motore era costituito da 8 caldaie white-forster e 4 gruppi turboriduttori parson in grado di fornire 107.000 hp per una velocità massima alle prove di 32,7 nodi. l’armamento consisteva in 9 cannoni da 203/55 in tre torri trinate, 8 cannoni aa da 127/25, 24 mitragliere da 40/56 e 22 da 20/70. prima unità della sua classe, costruita dopo le limitazioni imposte dal trattato di londra, era stato rimodernato per consentire l’imbarco a centro nave di un idrovolante e della relativa catapulta di lancio. utilizzato durante tutto il conflitto in oceano pacifico, aveva partecipato a numerosi scontri con il nemico; tarawa, iwo jima, okinawa. proprio durante le operazioni di okinawa, l’indianapolis era stato colpito da un kamikaze che aveva ucciso 9 marinai e causato gravi danni.

all’epoca dei fatti, non si poteva considerare una nave moderna.
di linee goffe e antiquate, conservava sempre una velocità superiore ai 30 nodi e possedeva un potente armamento. per questo venne deciso di riparare i danni subiti e la nave fu trasferita presso l’arsenale di mare island a san francisco.
rimessa a nuovo e reintegrato l’equipaggio con 280 nuovi effettivi, alla nave venne ordinato di imbarcare viveri e rifornimenti per una nuova missione. tra i rifornimenti furono imbarcati per errore ben 2500 salvagente a fronte di un equipaggio di 1195 uomini.
sarà, come vedremo in seguito, una macabra ironia del destino.

domenica 15 luglio il contrammiraglio purnell convoca il comandante dell’indianapolis, il capitano di vascello charles bulter macvay e gli consegna gli ordini. tra di essi viene ordinato di caricare materiale segreto sulla cui natura nemmeno macvay è al corrente e, di imbarcare dei passeggeri diretti a pearl harbour mentre il carico misterioso avrebbe proseguito per tinian.
si stava compiendo il destino di hiroshima e dei suoi abitanti.
il materiale segretissimo, come si saprà in seguito, era infatti la barra di uranio 235 che costituiva il “cuore” di “little boy”, la bomba che il b-29 “enola gay” avrebbe sganciato il 6 agosto 1945 causando 80.000 morti e 130.000 feriti. l’indianapolis, che portava a riva le insegne dell’amm. spruance, attese l’arrivo di due furgoni della us-navy che trasportavano il cilindro contenente l’uranio e altre componenti della bomba che vennero riposte nella cabina dell’aiutante di spruance e nell’hangar.
alle 08.00 del 16 luglio 1945 la nave lasciò gli ormeggi e dopo 71 ore di navigazione e 2100 miglia, raggiungeva pearl harbour, sbarcava i passeggeri e ripartiva immediatamente per tinian. finalmente all’alba del 26 la nave raggiungeva l’isola da cui sarebbero decollati i b-29 della 20^ forza usaf, 509^ gruppo, 21^ comando bombardieri.
portata a termine la missione, l’indianapolis diresse la prora a guam nelle marianne che raggiunse il 28 e da dove poi avrebbe dovuto raggiungere leyte nelle filippine per essere inserita nella tf95. nella sosta a guam, dove venne effettuato il rifornimento, fu imbarcato anche il cv e.m. crouch diretto a leyte.
gli uomini a bordo erano ora 1196.
non essendo disponibile alcuna unità di scorta, l’indianapolis salpò da solo. navigando a zig-zag ad una velocità di 17 nodi sarebbe giunto a leyte verso le 11.00 del 31 luglio. la navigazione si preannunciava sufficientemente tranquilla. nessun avvistamento di attività nemica tranne due avvistamenti di sommergibili risalenti ad una decina di giorni prima e distanti 100 miglia dalla rotta prevista.

(segue...)
 
(...segue)

alle 19.00 di domenica 29 luglio la nave manteneva rotta 262 quando una violenta esplosione a prora, seguita da una seconda a centro nave, sconquassavano le strutture del vecchio incrociatore. due enormi falle su erano aperte alle tra le ordinate 7 e 50 e da li, tonnellate di acqua erano entrate nello scafo inclinandolo subito di alcuni gradi. nella prima esplosione erano andati distrutti gli alloggi ufficiali di prora uccidendo nel sonno molti di essi mentre la seconda causò l’allagamento della sala macchine e della centrale radio per cui divenne impossibile lanciare il segnale di soccorso. il comandante mcvay si rese conto immediatamente che la nave era perduta e diede subito l’ordine di abbandono dell’unità anche se la nave aveva già assunto uno sbandamento tale da rendere impossibile mettere in acqua le motolancie da 7,8 metri. gli uomini potevano fare affidamento solo sui salvagente e su qualche zattera che dopo l’affondamento sarebbe emersa.. di 24 reti galleggianti disponibili a bordo, ne tornarono a galla solo due alle quali si aggrapparono circa 25 marinai. alle 00,14 del 30 luglio l’indianapolis scompariva nelle profondità dell’oceano. la nave, seppur colpita, aveva continuato per abbrivio a percorrere 6-7 miglia per cui i naufraghi si trovavano sparpagliati per una vasta zona di mare. il comandante aveva abbandonato la nave mentre ormai stava affondando ed era stato recuperato da un gruppo di 4 zattere con 10 uomini e molti viveri. poteva considerarsi fortunato. non altrettanto potevano dirsi la maggior parte degli altri 750 naufraghi. circa 300 di loro erano raggruppati attorno un grande salvagente e alcuni zatterini, tenendosi aggrappati a lunghe cime galleggianti. altri erano raggruppati in gruppetti di 10-30 persone, molti erano isolati da tutti. senza acqua da bere, bruciati dal sole e dalla nafta, feriti dalle esplosioni e dalle fiamme, molti di essi affogarono. altri impazzivano con il passare delle ore e dei giorni. ma la tragedia doveva ancora compiersi. i sopravvissuti furono attaccati dagli squali che “banchettarono” tra le urla di terrore dei naufraghi.
dopo 12 anni e otto mesi di servizio l’indianapolis era stato affondato dal sommergibile giapponese i-58 e dal suo comandante, il capitano di corvetta mochitsura hashimoto. l’i-58 era un grande sommergibile armato con 6 tubi dal 600mm e con 19 micidiali “lunghe lance”, gli unici siluri capaci di 50 nodi per 10.000 metri, con 540 kg di esplosivo. il battello era salpato da kure il 16 luglio imbarcando oltre ai 105 uomini di equipaggio, anche 12 piloti suicidi e 6 “kaiten”. alle 23.30 del 29 luglio una vedetta aveva avvistato una possibile unità nemica a 10.000 metri di distanza. dopo 5 minuti il sommergibile era immerso e pronto al combattimento. poco dopo la mezzanotte era a soli 1500 metri dall’ignaro incrociatore statunitense e hashimoto ordinò il lancio da tutti e sei i tubi contro quella che riteneva erroneamente una corazzata classe “idaho”. dopo aver udito tre esplosioni, credendo che la nave nemica non volesse affondare, scese a quota profonda per ricaricare i tubi ma quando riemerse, della nave non c’era più traccia. probabilmente il sommergibile era riaffiorato in una zona sbagliata.
intanto incredibilmente, mentre si consumava la tragedia dell’equipaggio, nessun comando della us-navy si era accorto della scomparsa della nave. neppure il comando della tf95 si era allarmato non vedendola arrivare. non era stato ricevuto alcun allarme ne richiesta di soccorso. nemmeno i comandi dei porti avevano ordini di segnalare ritardi o mancati arrivi di unità attese.
così le operazioni di soccorso scattarono casualmente il 2 agosto quando un ricognitore, in missione per il collaudo di una nuova antenna radio rimorchiata, avvistò alcuni naufraghi di nazionalità sconosciuta, anzi, probabilmente giapponesi di un sommergibile affondato. il pilota, attirato dal riflesso di una grande chiazza di nafta, si abbassò a pelo d’acqua notando con stupore alcune teste affiorare dall’acqua. ben presto ne furono contati 30 e dall’aereo vennero lanciati dei salvagente e due boe sonore. poi l’aereo comunicò con la base l’avvistamento facendo scattare le tardive operazioni di soccorso. altri due aerei furono dirottati in zona e gli avvistamenti raggiunsero presto il numero di 150 naufraghi. alle 16,35 un pby ammarava e iniziava il recupero prendendo a bordo 56 uomini e grande fu la sorpresa nell’apprendere che si trattava dell’equipaggio dell’indianapolis. tutte le unità navali disponibili furono dirottate in zona e il primo a giungere fu il caccia “doyle” che spremendo al massimo le macchine, raggiunse per lui l’incredibile velocità di 24 nodi. ma nonostante gli sforzi, non raggiunse i naufraghi che pochi minuti prima di mezzanotte. all’alba aveva recuperato 93 uomini. alle 01.40 giungevano altre navi, il “dufilho” e il “bassett” che raccolsero 151 naufraghi. alle 2 del mattino arrivavano il “register” ed il “rigness” che recuperavano rispettivamente 12 e 39 naufraghi tra cui il comandante mcvay. il “madison” arrivato dopo, non trovava alcun superstite mentre il “talbot” ne trovava 24. in totale nove unità coadiuvate da numerosi aerei, proseguirono le ricerche fino al 5 agosto ma non trovarono altro che resti che furono sepolti in mare dopo una sommaria identificazione.

la tragedia dell’indianapolis si era conclusa ma non per il comandante. mcvay venne infatti sottoposto a corte marziale, unico tra i 700 comandanti di navi statunitensi affondate durante il conflitto, e giudicato colpevole di aver "messo a rischio la nave rinunciando a zigzagare".in realtà, il comandante giapponese testimoniò dopo la guerra che la cosa non avrebbe fatto alcuna differenza. inoltre, fatto che venne tenuto segreto fino al 1990, le intercettazioni ultra avevano rivelato la presenza di un sottomarino operante con certezza nell'area.
altre prove esistevano comunque a discarico del capitano:
• l' indianapolis fu l'unica unità maggiore inviata da guam alle filippine senza una scorta, sebbene il capitano avesse fatto esplicita richiesta in tal senso.
• benché il caccia di scorta underhill fosse stato affondato 24 ore prima della partenza da guam, il comandante mcvay non venne informato.
• l'ufficiale addetto al traffico a guam, pur cosciente dei rischi lungo la rotta, stabilì che una scorta non era necessaria, e successivamente al processo testimoniò che il rischio di attacchi da parte di sottomarini per la nave era "molto piccolo".
sotto processo finirono anche quattro comandanti a terra accusati dei ritardi nelle operazioni di soccorso ma non avevano alcuna colpa se non quella di essersi attenuti ai regolamenti in vigore che infatti, vennero immediatamente aggiornati.

alla fine, l'ammiraglio chester nimitz annullò la sentenza e prosciolse mcvay rimettendolo in servizio attivo. sebbene molti superstiti non attribuissero alcuna responsabilità al capitano, molti dei familiari lo fecero, montando un clima di linciaggio morale che alla fine portò al suicidio di mcvay col revolver di ordinanza nel novembre 1968.

dopo 90 ore di angoscia passate aggrappati ai salvagente, i sopravvissuti furono 316 su 1196. degli 880 scomparsi, la maggior parte erano finiti tra le fauci degli squali.
 

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una nave isolata e veloce non ha alcun vantaggio zizzagando.
se mantiene una elevata velocità nessun sommergibile del periodo poteva sperare di "agganciarla".
mi ricordo di un episodio interessante della qeen mary durante la seconda guerra mondiale con uno "scontro" con un caccia di scorta che pretendeva di farl azizzagare come da regolamento.
 
a proposito del "tiro" ho trovato questo esauriente pdf:
http://www.marinai.it/contatti/tiro.pdf
allego, in caso vada disperso il link.

mi sono letto l'interessante articolo che spiega in modo comprensivo le problematiche connesse all'artiglieria navale nel periodo bellico. oggi la situazione è sostanzialmente cambiata. il cannone oggi è relegato a compiti per così dire "secondari". viene, infatti, considerato un'arma complementare ai missili sup/aria nel compito antiaereo e ai missili sup/sup nel compito antinave. rimane prerogativa del cannone il ruolo controcosta. il cannone è quindi destinato a colmare "i buchi" del sistema missilistico quale ad esempio la "distanza minima di ingaggio". un altro limite per quanto riguarda i sistemi missilistici è nel numero di missili di riserva che è possibile stivare a bordo di una unità. un caso particolare in cui il cannone si è ritagliato un ruolo ancora importante, è nella difesa antimissile. i sistemi a ciò destinati, sono sistemi molto complessi e così specializzati, da essere considerati una categoria a parte (sistemi ciws). dovendo in sede progettuale scegliere quale artiglieria installare a bordo bisogna innanzitutto considerare che non esiste un'arma in grado di coprire con efficacia tutti i ruoli, un cannone antiaereo sarà di scarsa efficacia nell'attacco a bersagli costieri. e' altresì vero che l'idea di imbarcare sistemi diversi di artiglierie è rifiutata a priori salvo il caso in cui il secondo sistema sia appunto un sistema ciws. pertanto occorre stabilire un compromesso tra:
- cannoni di piccolo calibro. utili nel tiro antiaereo ma con poco potere distruttivo contro naviglio leggero e assolutamente inutili nel tiro controcosta.
- cannoni di calibro maggiore. ottimizzato contro unità di superficie e bombardamento costiero ma con cadenza troppo bassa per il fuoco antiaereo.
le unità di superficie moderne comprese tra le 200 e le oltre 10.000 t hanno artiglierie comprese fra i 57 e i 130mm generalmente in torrette singole e in numero limitato visto che gran parte dei compiti un tempo assegnati alle artiglierie sono oggi assolti dai missili e che la precisione del tiro moderno, assistito dal radar, consente di compensare in qualità quello che si perde in quantità. generalmente le moderne artiglierie hanno un ruolo prevalentemente antiaereo la cui tattica di impiego non consiste più nel creare uno sbarramento di fuoco contro una formazione nemica abbattendo casualmente qualche aereo, ma piuttosto nel tiro di precisione contro un singolo velivolo. ma da cosa dipende l'efficacia del cannone? precisione, tempo di reazione e cadenza di tiro. il calibro non è un fattore particolarmente importante infatti un aereo può essere abbattuto indifferentemente sia con un 127 che con un 57. il compromesso da ricercare tra calibro e cadenza di tiro. logicamente un calibro maggiore contiene una quantità di esplosivo maggiore e quindi ha un raggio di distruzione superiore. questo consente di utilizzare spolette il cui raggio di attivazione è più ampio aumentando le probabilità di abbattere il bersaglio anche se questo vantaggio rischia di essere vanificato dall'effetto "clutter". il bersaglio infatti si avvicinerà alla nave volando a bassissima quota e questo potrebbe causare detonazioni premature causate da falsi eco riflessi dal suolo. i cannoni di calibro maggiore hanno una maggiore portata utile il che consente di ingaggiare il bersaglio a distanza maggiore, ma di contro hanno una cadenza di tiro più bassa, questo scarica la responsabilità della difesa ravvicinata esclusivamente ai sistemi ciws. in conclusione per quanto riguarda le preferenze sul calibro, si trovano risposte diverse da marina a marina. per il munizionamento, nel tiro antiaereo vengono utilizzati proietti del tipo he (high explosive), a frammentazione e con spoletta di prossimità.
se nel ruolo antiaereo il cannone è complementare ad altri sistemi, nel ruolo antinave questo è ancora più evidente. il numero di missili antinave è infatti molto limitato (in alcuni casi non più di 8) e vengono riservati per bersagli particolarmente "paganti". i bersagli vengono classificati come:
- unità a bassa minaccia e basso valore
- unità a bassa minaccia e alto valore (ad esempio mercantili, rifornitori di squadra, ecc)
- unità ad alta minacca e basso valore (motovedette, motosiluranti).
un altro limite nell'impiego dei missili antinave è dato dalla distanza minima di ingaggio il che rende il cannone indispensabile per la difesa contro attacchi in acque ristrette. logicamente il cannone antinave dovrà avere calibro elevato per consentire un elevato potere distruttivo del singolo colpo e una distanza utile maggiore. la cadenza di tiro ha in questo caso una rilevanza inferiore pur rimanendo un parametro importante. la precisione di tiro è invece importante per diminuire il quantitativo di munizioni necessario a annullare la minaccia. il calibro delle armi antinave è compreso tra i 100 e i 130mm quasi sempre in torretta singola. dato che oggi le navi sono prive di corazzatura, il munizionamento non presenta particolari difficoltà. in genere sono utilizzati proietti he con spoletta ritardata e di tipo sap (semi armour piercing) in grado di perforare le lamiere di acciaio prima di esplodere. per unità di piccole dimensioni come ad esempio lo siluranti, può essere utile utilizzare proietti a frammentazione con spoletta di prossimità.
nel tiro costiero il grosso calibro è indispensabile, consente di impegnare il nemico rimanendo al di fuori della portata delle difese costiere.il tiro controcosta è effettuato per impegnare prevalentemente bersagli “morbidi” sparsi o di zona (truppe, veicoli in colonna o in spiegamento, batterie di artiglieria e missilistiche, etc.) e secondariamente bersagli “duri” puntiformi (bunker, fortificazioni, posti di comando, etc.). la cadenza assume un ruolo secondario a meno che non si tratti di bersagli in movimento. anche i questo caso il calibro è compreso tra i 100 e i 130mm. lungi dall'essere il calibro ideale ma piuttosto risultato del fatto che il tiro costiero è sempre considerato un ruolo secondario rispetto al tiro antinave. non paragonabile con i 406mm della classe iowa capaci di sparare un proiettile da 860 kg a 38 km di distanza con una cadenza di 2 colpi al minuto. il munizionamento deve essere ad alto potere distruttivo e quindi si utilizzano munizioni he a frammentazione, con spoletta di prossimità ad effetto suolo (esplodono prima del contatto con il terreno) e, munizioni sap contro i bersagli protetti.
l'esperienza ha dimostrato che i tre ruoli richiedono requisiti specifici non colmabili da un unica arma. quindi si hanno cannoni bivalenti ossia antiaereo/antinave o antinave/controcosta.

le nostre unità imbarcano l'oto 76/62 e il 127/54.
l'oto 76/62 è un cannone polivalente costruito dall'oto melara. si tratta di un arma dalla cadenza di tiro molto elevata soprattutto nella versione super rapido. e' adatto alla difesa antimissile e antiaereo. molto compatto, trova impiego anche su unità di piccole dimensioni. senza il munizionamento, pesa 7500 kg e occupa un raggio di 3,15 metri (la versione con torretta stealth). ha una cadenza di 120 colpi al minuto con una portata di 9 km (fino a 30 km con il munizionamento davide/dart). il sistema di raffreddamento è ad acqua di mare. il cannone è esportato verso 53 marine e in alcuni paesi è prodotto su licenza.

il 127/54 è un cannone polivalente per la difesa e l'attacco contro bersagli navali e costieri. può essere utilizzato, quale ruolo secondario, anche nel tiro contraereo. la polivalenza è data dalla grande quantità di munizionamento utilizzabile. ne viene prodotta una versione "compatta" che lo rende utilizzabile anche su unità di medie dimensioni come le fregate. dal 1992 è stata sviluppata la versione lightweight da 25 t (contro le 37 ,5 precedenti). dai primi anni del 2000 è stato sviluppato il progetto "vulcano" capace di estendere il tiro fino ad oltre 100km e la versione lc (long carabine) con canna più lunga di 1,3 metri. la cadenza è di 40 proiettili al minuto e il raffreddamento è ad acqua di mare.
 

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dopo 90 ore di angoscia passate aggrappati ai salvagente, i sopravvissuti furono 316 su 1196. degli 880 scomparsi, la maggior parte erano finiti tra le fauci degli squali.
impressionante...
 
classe calvi (calvi, finzi, tazzoli)
grazie alle esperienze acquisite con i “balilla”, nel 1932 ai cantieri del muggiano fu impostata una nuova serie di tre sommergibili da grande crociera. per il progetto si sadottò la soluzione del doppio scafo totale in cui il cilindro interno dello scafo, veniva raccordato alle estremità con due tronchi di cono chiusi da calotte semisferiche. le casse emersione, rapida e assetto, erano sistemate entro lo scafo resistente mentre i depositi del carburante erano in parte interni e in parte ricavati negli interspazi creati dagli avviamenti dei doppi fondi laterali.
lunghezza: 84,3 m larghezza: 7,71 m immersione: 5,15 m dislocamento in superficie: 1530 t. dislocamento in immersione: 2033 t.
apparato motore su due assi e due eliche. in superficie: 2 motore diesel fiat da 4400 cv per una velocità max.di 17.0 nodi e una autonomia di 11400 miglia a 8 nodi (in sovraccarico).
in immersione: 2 motori elettrici s.giorgio da 1800 cv per una velocità di 8,0 nodi e una autonomia di 120 miglia a 3,0 nodi.
armamento: 4 tt.ll.ss prora, 4 tt.ll.ss. poppa, 1 cannone da 120/45mm, 2 mitragliere da 13,2, 2 tubi lanciamine (solo tazzoli)
equipaggio: 7 ufficiali, 60 sottufficiali e marinai
profondità di collaudo: 100 mt
inizialmente era stata prevista l’installazione di un motore ausiliario che nelle intenzioni avrebbe dovuto aumentare la già elevata autonomia in superficie ma in pratica però il motore non fu mai installato.
all’epoca furono fatte diverse ipotesi progettuali alcune anche avveniristiche come quella di un battello da 21 nodi in emersione e un altro con uno scafo costituito da sezioni sferiche invece delle tradizionali ordinate, ma i calvi rappresentarono il miglior progetto italiano di incrociatore sommergibile e ottennero buoni risultati durante il conflitto. anche per quanto riguarda le sistemazioni di sicurezza furono tra i primi battelli ad adottare la vasca “belloni” e la garitta di fuoriuscita “girolimi-arata”.
nel 1935 i tre calvi costituirono insieme al “fieramosca”, la seconda squadriglia poi nel 36, quando furono costituiti i gruppi sommergibili, passarono alle dipendenze del quarto gruppo di base a taranto insieme al “glauco” e all’”otaria”. nel 36 il finzi e il tazzoli compirono una crociera in mediterraneo poi partirono per la guerra di spagna dove compirono cinque missioni. nel 38 passarono al primo gruppo con base a la spezia assieme ai 4 balilla e al fieramosca.il finzi fu il primo sommergibile ad attraversare lo stretto di gibilterra acquisendo così utili indicazioni per i passaggi che seguirono.

calvi (motto: segnale di guerra e di sterminio)
sommergibile di grande crociera o oceanico impostato nal cantiere o.t.o. di la spezia il 20 luglio 1932. varato il 31 marzo 1935, fu consegnato alla regia marina il 6 ottobre 1935. il 3 luglio 1940 salpa da la spezia e la notte tra l’8 e il 9, attraversa in emersione lo stretto di gibilterra mantenendosi lungo la costa africana ed entrando senza difficoltà in oceano atlantico. dopo un periodo di pattugliamento nelle acque di madera, la notte tra il primo e il due agosto, riattraversa (questa volta in senso inverso) gibilterra e il 6 arriva a la spezia. il 1° ottobre molla nuovamente gli ormeggi e, giunto nei pressi dello stretto, si immerge per tentare l’attraversamento in immersione. durante questa difficile impresa, improvvisamente il battello si appesantisce e precipita verso il fondo arrestando la caduta a -143 metri senza comunque subire danni. infatti, il 3 si ormeggia a bordeaux da dove ripartirà il 3 dicembre. il 20 dello stesso mese, dopo un lungo combattimento, affonda presso l’irlanda, il piroscafo armato “carlton” da 5.160 tonnellate. il giorno dopo natale, nonostantele proibitive condizioni metereologi che, riesce a portarsi a distanza utile da un mercantile da 10.000 tonnellate. nonostante sia stata avvertita una violenta esplosione, non si hanno ulteriori notizie a riguardo. nel 1941, e precisamente il 7 dicembre, il calvi viene inviato a soccorrere i naufraghi dell’incrociatore ausiliario tedesco “atlantis” e del rifornitore “python”. i primi mesi del 42 vedono il battello operare nelle acque brasiliane dove attacca senza successo il mercantile “huntington” da quasi 11.000 tonnellate e affonda invece il “tredinnick” da 4.500. il 31 marzo, al largo di capo orange, affonda la petroliera americana “mac cobb” da 7.452 ton e l’8 aprile la petroliera “eugene v.r. thayer da 7.200. l’11 è la volta del “balkis” da 2.200 e il giorno dopo quella del “ben brush” da 7.700. dopo 53 giorni di missione il plurivittorioso calvi rientra a bordeaux. il comando del calvi viene preso da primo longobardo, uno dei comandanti italiani più famosi e il 2 luglio 1942 salpa da bordeaux diretto nel mar dei caraibi. il 15 individua un convoglio e si porta all’attacco. viene intercettato dal caccia “lulworth” che lo costringe all’immersione per attaccarlo poi con il lancio di bombe di profondità che causano gravi danni alle apparecchiature e infiltrazioni di acqua. longobardo è costretto ad emergere e mentre il battello risale verso la superficie, è centrato da una terza scarica di bombe che aggravano i già ingenti danni del sommergibile. fortemente sbandato, con i macchinari in avaria e numerosi morti e feriti, il calvi emerge tra le unità nemiche. con i motori a tutta forza, facendo fuoco con il cannone poppiero, il battello cerca di allontanarsi dalla trappola in cui si trova. ma il lutworth lo illumina con i proiettori e lo tempesta di proietti che causano altri morti e danni. in un’ultimo disperato tentativo il sommergibile lancia una coppia di siluri dai tubi poppieri che però mancano il bersaglio. per due volte il lutworth tenta di speronare il sommergibile che però riesce a manovrare per evitale l’impatto ma la terza volta il calvi viene colpito a poppa con conseguente distruzione di assi, eliche, e timoni. non esiste alternativa all’autoaffondamento. dei 67 uomini di equipaggio ne scompaiono con il glorioso sommergibile 32 compreso il comandante longobardo al quale verrà conferita la m.o.v.m.
in sette missioni in atlantico, il calvi aveva affondato sei mercantili per un totale di 50.549 tonnellate.

finzi
impostato il primo agosto 1932 nel cantiere o.t.o. di la spezia, viene varato il 29 aprile 1935 e consegnato l’8 agosto 1936. durante la guerra di spagna, nelle acque di valencia attacca con il siluro un caccia repubblicano classe “alsedo” che reagisce contrattaccando. il finzi riesce comunque a sottrarsi immergendosi rapidamente e allontana dosi dalla zona. nell’imminenza dello scoppio della guerra, viene inviato in atlantico. partito il 7 giugno 1940 da cagliari dopo 5 giorni di navigazione il finzi è in vista di punta almina quando viene individuato in immersione e attaccato infruttuosamente dal caccia inglese “watchman”. la sera del 13, in cui è prevista la massima oscurità, seguendo le prescrizioni di maricosom che indicavano come l’attraversamento dello stretto di gibilterra dovesse avvenire navigando in superficie alla massima velocità, il battello emerge e attraversa lo stretto. fu il primo sommergibile italiano ad atraversare durante la seconda guerra mondiale. portatosi al alrgo delle canarie dove non incontrò traffico, la notte del 6 luglio riattraversa lo stretto rientrando il 10 a cagliari. l’attraversamento dello stetto viene ripetuto, questa volta in immersione, il 12 settembre 1940 subendo senza riportare danni, l’attacco di un aereo e di un caccia. il 29 arriva a betasom, la base italiana di bordeaux. anche il finzi partecipa alle operazioni di salvataggio dei naufraghi dell’atlantis e del python. l’11 febbraio 1942 parte per il mar dei caraibi ma numerose avarie rendono difficoltosa la navigazione. in particolare una avaria ad un motore termico richiede una revisione che impegna per sei giorni l’equipaggio; in seguito vanno in avaria il valvolone di scarico, i periscopi, i timoni orizzontali. tutte le avarie sono riparate dal personale di bordo che si sottopone a massacranti turni di lavoro. il 6 marzo comunque il battello è in zona di operazioni e attacca la petroliera inglese “melponzene” da 7.000 ton. la nave centrata da quattro siluri, affonda rapidamente. dopo poche ore il finzi attacca il mercantile “skane” da 4.530 tonn. senza riuscire a colpirlo, ma il 10 affonda la “charles racine” da 9.960 tonnellate. rientrato a betasom, l’11 febbraio del ’43 il finzi parte con destinazione al largo di freetown nell’emisfero boreale. il 28 avvista il piroscafo greco “granicos” da 3.700 e lo affonda con un siluro, il giorno seguente è la volta del britannico “celtic star” da 5.575 . il 18 aprile, dopo 65 giorni di mare, mentre rientra a le verdon incappa in una mina magnetica che per fortuna non causa gravi danni. il finzi entra in bacino per una serie di lavori di trasformazione in unità di trasporto materiali verso l’estremo oriente. a fine luglio 1943 i lavori sono terminati e ad agosto il sommergibile è pronto per il primo viaggio. ma dopo l’8 settembre il finzi è catturato dai tedeschi che lo rinominano u.it.21 ma non lo impiegheranno fino alla fine della guerra.

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tazzoli
impostato nel cantiere o.t.o. di la spezia il 16 settembre 1932, varato il 13 ottobre 1936, fu consegnato il 18 aprile 1936. nella guerra di spagna esegue tre missioni durante la prima delle quali attacca un caccia repubblicano con siluri che non esplodono e subendone quindi la reazione. il 2 ottobre, dopo una partenza fallita per avaria, il tazzoli salpa per la sua prima missone di guerra in atlantico. dopo aver effettuato l’attraversamento di gibilterra con qualche difficoltà causata dalle correnti, il 12 ottobre affonda il piroscafo “orao” da 5.135 ton. e il 22 arriva a betasom. viene inserito in un blocco italo-tedesco posizionato al largo della scozia e il 13 dicembre affonda il mercantile “ardanbhan” da 4.580. assume il comando carlo fecia di cossato, altro nome famoso del sommergibilismo italiano, e il 7 aprile 1942 il tazzoli ritorna in atlantico al alrgo di freetown. affonda il piroscafo “aurillac” da 4700, la “fernlane” da 4320 e la petroliera “a. olsen” da 8.820. rimasto senza siluri fa irentro a betasom e giunto in vicinanza della base, viene attaccato da un aereo senza subire danni. nell’agosto del 42 è nuovamente nelle acque antistanti freetown dove danneggia il “sangara”, costretto ad arenarsi per non affondare, e la petroliera “sildra” da 7.300. nel dicembre partecipa all’operazione di soccorso dell’atlantis. marzo 1942, il tazzoli viene inviato al largo della florida dove affonda il mercantile “astrea” da 1.400, il”tosbergfjord” da 3.150 e la petroliera “athel queen” da 8.780. il “kastor” da 5.500 e la petroliera “havsten” da 6.160 vengono affondati nella successiva missione di giugno. il 14 novembre 1942 al tazzoli è assegnata una nuova missione davanti alle coste del brasile. rifornitosi di nafta dal “da vinci” attacca e affonda nello stesso giorno il piroscafo inglese “empire hawk” da 5.000 e l’olandese “omblin” da 5.700. il 21 dicembre tocca al “queen city” da 4.800 e la “donna aurora” da 5.010 ton. dopo 74 giorni di navigazione finalmente il tazzoli rientra alla base. viene trasformato in sommergibile da trsaporto e quindi parte per il giappone. non darà più notizie dal 16 maggio 1943 probabilmente affondato da una mina.
in totale le tonnellate di stazza lorda affondate dal tazzoli furono 105.229.
 
i violatori

il progressivo miglioramento delle difese avversarie, colte inizialmente di sorpresa dalle incursioni italiane, avevano avuto quale conseguenza che le torpediniere fossero sostituite dai mas, piccoli motoscafi dotati di motori elettrici per la marcia silenziosa e di cesoie idrauliche poste a prora per recidere i cavi di acciaio delle ostruzioni poste a difesa dei porti.
con il ritorno ai vertici della regia marina da parte dell’ammiraglio paolo tahon di revel, riprese vigore la strategia di violare i porti nemici mediante piccole siluranti “spendibili”. il problema rappresentato dalle ostruzioni era così sentito dal capo di stato maggiore che non esitò a compiere personalmente una ricognizione nelle acque di trieste con un motoscafo. in seguito a questo, verrà autorizzato il forzamento del porto ad opera dei mas 9 e 13 che la notte del 10 dicembre 1917 affonderanno al corazzata “wien”.
proprio nell’autunno del 1917 era in fase di realizzazione presso l’arsenale di venezia, un prototipo sperimentale di “tank marino”. si trattava di una unità silurante dotata di due catene “galles” munite di ganci, simili ai cingoli dei carri armati recentemente apparsi sul fronte francese. questi cingoli, mossi da un motore elettrico, avrebbero consentito di scavalcare le ostruzioni poste a difesa dei porti. contemporaneamente nei cantieri fiat san giorgio del muggiano di la spezia, il tenente di vascello angelo belloni (che abbiamo già incontrato in “sopra e sotto le onde”) insisteva con i suoi esperimenti pioneristici nelle attività subacquee tempestando nel frattempo lo stato maggiore di proposte insolite e avveniristiche. nonostante la cattiva stampa di cui godeva quell’insolito e stravagante tenente, (pochi anni prima si era impossessato del sommergibile “svyatoi georgi, destinato alla marina russa per attaccare una nave austriaca cercando così di provocare l’ingresso in guerra dell’italia), tahon di revel apprezzava i suoi suggerimenti e così, ebbero inizio a spezia gli studi sulla possibilità di adattare un piccolo sommergibile per la difesa foranea, agli scopi immaginati da belloni.
venne prescelto l’a1, un piccolo battello elettrico utilizzato fino ad allora per l’addestramento degli equipaggi. le modifiche comportarono l’aumento delle dimensioni della falsa torre destinata ad accogliere la “vasca belloni” cioè, un sistema per la fuoriuscita da un battello immerso. si trattava di un ingegnoso sistema basato sul principio della compensazione della pressione interna con quella esterna.
il progetto di belloni diventava con il passare del tempo sempre più ambizioso. l’a1 fu allungato a prora e venne dotato di un ulteriore portello per la fuoriuscita e il rientro di due palombari. la parte superiore della falsa torre fu allargata per permettere l’installazione di un “campana d’aria belloni” la cui funzione era di permettere a due palombari di uscire dal battello immerso. piuttosto che di palombari però, occorrerebbe parlare di sommozzatori. il progetto di belloni infatti, trattava di due operatori autonomi, senza scafandro, ma dotati di un respiratore individuale (il primo di cui si abbia notizia) detto “cappuccio”, di chiara ispirazione leonardesca, che eliminava le tubazioni per l’aria caratteristiche del palombaro. la validità delle idee di belloni, furono dimostrate da un riuscito ciclo di prove e l’a1 svolse appieno il suo compito di unità sperimentale.
l’intraprendente ufficiale venne nominato comandante del “ferraris”, un moderno battello da 335 tonnellate appartenente alla 2^ squadriglia di base a venezia. mentre si procedeva all’addestramento dell’equipaggio e degli operatori subacquei, l’arsenale cominciava i lavori di trasformazione del ferraris. secondo il piano ideato da belloni, i sommozzatori, una volta usciti dal sommergibile, avrebbero aperto un varco nelle ostruzioni del porto di pola, poi una volta rientrati a bordo, sarebbero penetrati con il battello nella base nemica. a questo punto sarebbero nuovamente usciti per minare le carene delle navi alla fonda. il respiratore belloni aveva superato un collaudo con una uscita d 32 metri di profondità ma era afflitto da un grave problema, la scarsa autonomia che non superava i pochi minuti. il progetto a quel punto, palesò la sua irrealizzabilità nonostante il tentativo di rimediarvi con l’utilizzo della campana.
tuttavia, non tutto il progetto venne abbandonato. il forzamento subacqueo, fino ad allora impensabile, convinse l’ispettorato dei sommergibili, ad autorizzare la modifica del b3 ossia il più recente di una serie di nuovi battelli tascabili dotati, a differenza degli “a”, anche di un motore a scoppio che aumentava la scarsa autonomia di quello elettrico. come tutti i minisommergibili, anche i b delusero le aspettative e dei sei previsti, ne furono realizzati solo i primi tre. il b3, afflitto da problemi all’apparato motore, fu modificato con l’adozione dei famosi cingoli. il progetto prevedeva che il galileo ferraris trasportasse i palombari in prossimità delle ostruzioni, che questi fuoriuscissero aprendo un varco, guidando poi il b3 attraverso il passaggio. il sistema si dimostrò ancora più complesso del precedente e le prove dimostrarono la necessità che i due battelli si mantenessero in comunicazione fra loro mediante un apparecchio ad ultrasuoni “fessenden”. ma nella notte fra il 27 e il 28 novembre 1917, il ferraris si incagliò riportando danni tali da consigliarne il disarmo. nonostante questa serie di insuccessi, tahon di revel mantenne immutata la fiducia verso belloni e già nel dicembre dello stesso anno, iniziarono i lavori di trasformazione del sommergibile “argo”, un classe “medusa” da 250 tonnellate. un sommergibile ormai superato ma dotato di notevoli caratteristiche di manovrabilità e stabilità. nel febbraio del ’18, il “sommergibile d’assalto” argo veniva posizionato “fuori quadro” cioè, al di fuori della 2^ squadriglia. problemi continui all’apparato motore del b3, oltre alle continue osservazioni negative di belloni, da sempre contrario al progetto del sommergibile munito di cingoli, spinsero lo stato maggiore a disporre ulteriori modifiche all’argo disarmando contemporaneamente il povero b3. ma l’argo cominciava a dimostrarsi troppo piccolo e usurato, tanto da essere rimpiazzato nell’estate del 1918 dal ferraris di cui si era deciso il recupero e soprattutto, la messa a punto del “cappuccio” non era ancora soddisfacente.
si arrivò così all’armistizio di villa giusti, che pose fine al conflitto italo-austriaco nel novembre del 1918 e che scrisse la parola fine sugli esperimenti con i “sommergibili d’assalto”. tahon di revel si dimise, il galileo ferraris radiato il mese successivo e belloni, congedato.
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ma belloni non si diede per vinto e nel 1920, ancora titolare dei brevetti pur sempre coperti dal segreto militare, chiese alla regia marina che gli fosse noleggiato il ferraris (in attesa di demolizione), per dedicarsi alla attività di recupero di relitti e alla pesca delle perle in mar rosso.
la inattesa e stravagante richiesta, supportata comunque da una solida fidejussione di 100.000 lire, venne respinta dall’ammiraglio alfredo acton, nuovo capo di stato maggiore, che volle mantenere il segreto sul programma e compensando per questo belloni, con la cessione a condizioni di favore, di tre dragamine (g9, g18 e g30). con queste tre navi, belloni mise in piedi una compagnia di navigazione tra egitto e turchia poi nel 23 rientrò in italia. nel 1922 la regia marina aveva deciso di adottare per la fuoriuscita di emergenza dai sommergibili, la “garitta bernardis” adottata per la prima volta sui classe “pisani” impostati nel 1925 e gli studi sui respiratori autonomi furono abbandonati. ma il 6 agosto 1928 il cacciatorpediniere “missori” entrò in collisione con il sommergibile “f14” causando la morte per asfissia di tutto l’equipaggio rimasto intrappolato nel battello a meno di 20 metri di profondità e nonostante l’intervento della nave salvataggio “anteo”.
lo stato maggiore, che aveva appena rimosso il segreto militare dai brevetti di belloni permettendogli di depositarli, si trovò a dover riconsiderare la questione. nel giro di appena un anno, furono gettate le basi dei “sommozzatori italiani” (anche il termine è opera di belloni) che cominciarono una serie di esperienze con i sommergibili “f17”, “n5” e “toti”. l’apice di questi studi si raggiunse con il trasbordo eseguito a dieci metri di profondità di 14 uomini, guidati dallo stesso inventore, tutti muniti di cappuccio, dal sommergibile “toti” all’”f17”, in soli 48 secondi. altra invenzione fu la “catena compensatrice belloni”, uno spezzone di catena ammanigliata al posto dell’ancora e filata per 7 metri dalla cubia che permetteva di ridurre le oscillazioni del battello. questo sistema sarà in seguito utilizzato dai sommergibili avvicina tori dei futuri mezzi d’assalto.
nel 1930 la regia marina, pur adottando le vasche belloni, non ritenne opportuno di acquistare anche i cappucci nonostante la clamorosa trovata pubblicitaria nella quale le figlie di belloni, paola e maura di 9 e 5 anni, compirono una “passeggiata subacquea” nel mare di portovenere. nonostante l’insolita dimostrazione, la regia marina preferì adottare la “maschera davis”, un respiratore autonomo progettato in inghilterra, che garantiva una maggiore autonomia e una profondità di utilizzo maggiore.
l’idea di un battello forzatore di porti nemici, ritornò alla ribalta nel 1934 su iniziativa dell’ammiraglio domenico cavagnari, in seguito al peggioramento dei rapporti con la gran bretagna in africa orientale. la proposta di belloni di ricorrere a “marciatori subacquei” che avrebbero camminato sul fondo (le pinne verranno inventate dal t.v eugenio wolk per gli uomini gamma, i nuotatori d’assalto della x mas), fu subito scartata per l’innegabile lentezza e per l’impossibilità dei marciatori di orientarsi sul fondo anche se vennero sperimentate con successo una bussola luminosa e una lampada portatile “guglielmotti” non rilevabile dalla superficie. assolutamente decisiva fu invece una ulteriore invenzione di belloni, il “vestito belloni” ossia, una muta subacquea realmente stagna grazie ad un ingegnoso sistema di chiusura. ora i palombari autonomi assumevano un ruolo indispensabile nel successo del “semovente tesei”, il prototipo in corso di realizzazione presso l’officina siluri san bartolomeo di la spezia, di quello che diventerà il principale mezzo d’assalto subacqueo italiano, l’slc più noto come “maiale”. la marina acquistò due maschere tedesche della “draeger” che portavano l’autonomia subacquea a 20 minuti e le modificò su indicazione di belloni, munendole di occhiali normali alla visuale.
il 2 gennaio 1936 il programma era definito in tutte le sue parti essenziali. l’equipaggiamento dei palombari era pronto. i sommergibili h6 e h8, due unità anziane, quindi spendibili, ma dalle buone qualità nautiche, vennero sottoposte a lavori di adattamento. il primo sarebbe stato dotato di uno speciale congegno per il forzamento delle ostruzioni, mentre il secondo avrebbe montato due selle per il trasporto dei semoventi. lo speciale congegno suddetto consisteva in due draglie mobili munite di ganci che, mosse da un motore elettrico, avrebbero dovuto sollevare il bordo inferiore della rete di protezione. i palombari sarebbero dovuti uscire dal battello, collegarsi telefonicamente con l’interno dello stesso e incocciare i penzoli dei ganci delle draglie alla relinga inferiore della rete. i penzoli dovevano passare sopra a due pulegge ed essere collegati alla catena dell’ancora precedentemente smanigliata. a quel punto l’argano a salpare avrebbe tirato fino a che la relinga non avesse oltrepassatole pulegge. un dente di arresto avrebbe impedito la ricaduta sul fondo della rete. a questo punto i palombari liberavano i ganci e il battello avviava la draglia mobile i cui scontri, spingevano la rete verso poppa. la velocità era di un metro e mezzo al minuto quindi al sommergibile per oltrepassare l’ostruzione, occorreva mezz’ora almeno. una volta superata l’ostruzione, si rilasciavano i mezzi d’assalto. non era previsto un secondo riattraversamento della rete. il sommergibile avrebbe dovuto a sua volta scegliersi degli obiettivi da attaccare con i siluri. l’h6 venne dotato di una sfera di osservazione a prora e nel febbraio del 36 iniziò le prove pratiche ottenendo subito buoni risultati. poi il 15 aprile venne eseguita una prova più veritiera nella rada di la spezia con il sommergibile “rubino” incaricato di “ascoltare” con l’idrofono le operazioni dell’h6. la prova andò male, con il sommergibile che si incastrò sotto la rete. i cavi di sollevamento dovettero essere cesoiati liberando la prora del battello che così riuscì ad emergere, di positivo ci fu che il rubino non riuscì a captare alcun rumore “sospetto”. dopo le opportune modifiche, il 23 aprile la prova venne ripetuta ma questa volta ad ostacolare le operazioni, ci si mise una forte corrente che portò il sommergibile a disporsi parallelamente alla ostruzione anziché perpendicolarmente come era necessario. l’h6 fu costretto ad emergere con la rete incappellata sulla prora rimossa grazie ad un pontone. il sommergibile fu dotato allora di 4 ancorotti per mantenere la prora perpendicolare alle ostruzioni e il 28 aprile ci fu il terzo tentativo. il palombaro uscì e incocciò i ganci e diede il via alla manovra di sollevamento. ma due anelli della rete si incappellarono sulle pulegge prodiere e, nonostante gli sforzi dei palombari , non ci fu modo di tagliare gli anelli. dovette nuovamente accorrere un pontone di sollevamento per liberare lo sfortunato h6. a dare il colpo di grazia al progetto, ci fu anche il rapporto del sommergibile "zaffiro” comandato all’ascolto all’idrofono, che riferì di aver chiaramente udito le manovre dell’h6 (la colpa era da attribuire alla rumorosità della pompa di assetto).
ma l’equipaggio dell’h6 e il suo comandante, si dimostrarono particolarmente ostinati e il 7 maggio l’esperimento venne ripetuto. tutto sembrava procedere per il meglio quando nuovamente una maglia della rete si incattivò bloccando il sommergibile sotto il peso della rete. per due ore il palombaro tentò di liberare la rete senza riuscirci e dovette essere chiamato nuovamente il pontone di sollevamento. l’h6 ricevette l’ordine di rinunciare e rientrare alla base ma invece il battello tornò sul fondo ricominciando l’operazione. questa volta, impiegando 35 minuti, l’impresa riuscì e alle 17.00 il sommergibile emerse 150 metri oltre le ostruzioni tra le acclamazioni generali.
la relazione confermava che con opportune modifiche e piccoli miglioramenti, l’impresa era realizzabile. dalle prove emerse anche che il limite fisiologico dei sommozzatori poteva superare i limiti fino ad allora stabiliti in 90 minuti.
nel luglio 1937 l’h6 superò senza difficoltà e in meno di 30 minuti, le ostruzioni della base di spezia.
ma gli studi del tenente teseo tesi, coadiuvato dal sempre presente angelo belloni, portarono alla messa a punto di un nuovo autorespiratore capace di assicurare una autonomia fino ad allora impensabile, di tre ore. si trattava del modello 49/bis prodotto in seguito dalla i.a.c., una consociata della pirelli.
gli studi del tenente medico bruno falcomatà confermarono la possibilità di operare fino a 30 metri di profondità fino a 2-3 ore ponendo, nel 1939, la regia marina all’avanguardia mondiale nel campo delle tecnologie subacquee.
dopo tre anni gli studi, le fatiche, gli sforzi, i rischi corsi dall’equipaggio di un vecchio sommergibile e le sue insolite strutture, finirono dimenticate grazie all’autonomia raggiunta dagli slc e dagli autorespiratori che consentivano il rilascio dei mezzi d’assalto a distanza di sicurezza dalle ostruzioni.
 

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conte rosso

le poche ma determinate squadriglie di bombardieri e aerosiluranti di base a malta, oltre alla mezza dozzina di sommergibili classe “u”, costituirono una dolorosa spina britannica conficcata nel fianco dei convogli italiani diretti dalla penisola al fronte libico.
tra questa piccola flotta di sommergibili, c’era l’upholder, un battello da 570 tonnellate, con 35 uomini di equipaggio, comandati da uno scozzese trentenne, il capitano di corvetta malcom david wanklyn.

tra i compiti principali della regia marina, c'era quello di assicurare la protezione ai convogli di rifornimenti destinati alle truppe in nord africa.
i convogli italiani avevano due rotte da seguire per raggiungere i porti nord africani.
quella di levante, che consentiva la traversata in 30 ore di navigazione ma passava pericolosamente vicino a malta e, quella più lunga di dieci ore, ma ritenuta più sicura, che da trapani raggiungeva tripoli costeggiando la tunisia.
dopo due mesi di caccia senza esito, ad aprile il battello inglese era riuscito ad affondare tre piroscafi avventurandosi lungo la rotta fino ad allora preferita dagli italiani. queste inattese perdite fecero decidere lo stato maggiore che la traversata si sarebbe dovuta effettuare, per i convogli capaci di navigare a minimo 15 nodi, da napoli a tripoli passando attraverso lo stretto di messina e superando il tratto più vicino a malta di notte e, alla massima velocità.
il primo esperimento in tal senso andato a buon fine, fece decidere per una seconda spedizione da effettuarsi alla fine di maggio.
ottomilacinquecento soldati dell’asse furono imbarcati sulla nave passeggeri “victoria”, il piroscafo passeggeri “conte rosso” e il piroscafo misto “marco polo”.

il conte rosso rappresentava all’epoca uno dei fiori all’occhiello della marina mercantile italiana. era stato costruito nei cantieri scozzesi william beardmore & co a dalmuir nei pressi di glasgow. il primo tentativo di varo, il 26 gennaio 1921, fallì perché la nave rimase ferma sullo scalo. solo il 10 febbraio 1922 lo scafo del conte rosso poté scendere in acqua. dislocava 22.000 tonnellate ed era lunga 108.1m e larga 22.6. i 2 gruppi turboriduttori, della potenza di 19.200 cv, permettevano una velocità massima di 18.5 nodi.

il loyd sabaudo di genova, committente della nave, la impiegò per il viaggio inaugurale sulla rotta genova-napoli-montevideo-buenos aires, ma dal 1922 al 1928 il piroscafo passò alla linea da genova a new york via napoli. dall'aprile 1928 il conte rosso fu trasferito sulla linea per il sudamerica e vi rimase sino al 1932, quando venne noleggiata dal loyd triestino che lo impiegò sulla tratta trieste-shanghai, con grande soddisfazione dei passeggeri accolti dai 280 uomini di equipaggio, su una nave elegante e dotata di tutti i comfort dell’epoca.
nel 1935, durante la guerra d'etiopia, fu requisita e adibito al trasporto di truppe e coloni in a.o.i.
l'anno successivo, dopo essere stata restituita al lloyd triestino, fu sottoposta a lavori di sostituzione dell'apparato motore nei cantieri dello stabilimento tecnico triestino: il nuovo apparato motore, costruito dalla franco tosi di legnano, aveva una potenza di 25.000 hp e consentì di incrementare la velocità a 20 nodi.
e qui comincia la storia di cui parliamo oggi.

il 3 dicembre 1940, viene nuovamente requisita dalla marina militare e adibita al trasporto di truppe in libia. effettua diversi viaggi trasportando parecchie migliaia di uomini (fra cui per esempio, l'8 febbraio 1941, reparti della divisione ariete).
l’equipaggio è ridotto a 247 uomini comandati dal capitano giovanni fabris al quale, come previsto dalle norme di guerra, era affiancato il capitano di fregata enrico bellegarde de saint lary. le stesse norme prevedono anche l’imbarco di radiotelegrafisti e segnalatori della regia marina.
viene quindi inviato a napoli per far parte di un nuovo convoglio diretto in africa.

(segue...)
 
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mentre a napoli fervono i preparativi per la partenza, il 15 maggio l’upholder salpa da malta e si dirige verso la calabria incontrando subito alcune difficoltà. l’asdic va in avaria e il sommergibile si ritrova così improvvisamente sordo, poi si guasta un siluro già caricato nei tubi di lancio. deve essere quindi estratto e sostituito con un altro (cosa tutt’altro che semplice da farsi in navigazione). questi ostacoli comunque non sono sufficienti a convincere il comandate wanklyn a fare rientro alla base. decide comunque di rimanere nella zona di agguato assegnatali venendo periodicamente in superficie in ascolto radio.
durante una di queste emersioni, il giorno 19 malta lo avverte dell’imminente passaggio in zona di un convoglio diretto in grecia. la stessa sera vengono infatti avvistate due cisterne e la loro scorta ma i tre siluri lanciati dal battello inglese mancano i bersagli. il 21 sono gli italiani ad avvistare il sommergibile che è costretto ad immergersi. è sottoposto al lancio di bombe di profondità che comunque non gli causano danni e non gli impediscono dopo due giorni di silurare la cisterna “capitaine damiani” senza però riuscire ad affondarla. con solo due siluri rimasti e con il combustibile che comincia a scarseggiare, l’upholder mette la prua verso malta pur continuando la ricerca di eventuali bersagli.
torniamo a napoli dove le operazioni di imbarco sono ormai terminate e quasi 2500 militari, tra cui 106 ufficiali, hanno preso posto sul conte rosso che imbarca un totale di 2729 persone, mentre dalle banchine familiari e curiosi salutano le truppe in partenza. una folla che rende impossibile verificare la presenza di informatori o spie del nemico il quale a quest’ora, ha avuto più di una occasione per conoscere i piani italiani.
un altro grave atto di mancanza di rispetto delle norme di segretezza imposte dallo stato di guerra è commesso dai comandi a terra italiani che comunicano telefonicamente e, “in chiaro” alle batterie navali di augusta e siracusa, composizione, rotta e, orari del convoglio italiano in transito.
alle 04,40 del 24 maggio il convoglio lascia napoli e, alla velocità di 17 nodi, si dirige verso il canale di sicilia che raggiunge alle 15,15, mentre da messina escono le torpediniere “calliope”, “perseo” e “calatafimi” con compiti di scorta e vigilanza. alle 16,00 sempre da messina, escono anche gli incrociatori “trieste” e “bolzano” con i caccia “corazziere”, “ascari” e “lanciere” destinati alla scorta mentre in cielo, caccia e idrovolanti dell’83° gruppo, assicurano la protezione aerea. sono le 19,10 quando le tre torpediniere lasciano il convoglio ed invertono la rotta facendo rientro a messina. alle 20,15 anche l’ultima coppia di cant z 501 deve fare rientro avendo raggiunto il limite di autonomia ed essendo ormai calata la notte.
ora la squadra italiana, priva del radar, è cieca e naviga completamente oscurata a 18 nodi, su quattro colonne di due navi ciascuna. la colonne sono così disposte: “freccia” e “pegaso” – “conte rosso” e “marco polo” – “esperia” e “victoria” ed infine “orsa” e “procione”. a 3000 metri di distanza seguono affiancate “ascari”, “corazziere” e “lanciere”; infine in linea di fila, “trieste” e “bolzano”.
gli italiani non sono tranquilli e per precauzione la truppa viene fata salire in coperta e sui ponti superiori disarmata, con le scarpe slacciate e, con indossati i salvagente. a far stare peggio i soldati provvede il mare forza 2 in aumento anche se in lontananza la visione della costa infonde una certa tranquillità.
ma il destino ha deciso diversamente. l’upholder in quel momento si trova poche miglia più a nord e il comandante sta guardando attraverso il periscopio quando improvvisamente, vede stagliarsi contro la costa le sagome delle navi italiane. sono le 20.30 e con l’asdic in avaria è stata per lui una vera fortuna (o non solo fortuna?) trovarsi al punto giusto. ora deve decidere in fretta perché le navi italiane navigano molto veloci e sono già vicine. alle 20.32 il conte rosso gli è a 1.500 metri, dopo un minuto l’upholder lancia i suoi siluri poi wanklyn ruota il periscopio giusto in tempo per vedere la prora del “freccia” dritta su di lui. “immersione rapida” e l’upholder scende rapidamente a 50 metri mentre il caccia italiano passa a tutta velocità sopra la sua poppa evitando per un soffio le scie dei due siluri e sparando un razzo verde il cui significato è “siluro a sinistra”.
il conte rosso vede il segnale di pericolo ma non c’è tempo per manovrare. dopo 77 secondi dal lancio una fiammata si alza tra la plancia e il fumaiolo prodiero. la nave rallenta e comincia subito a sbandare sulla sinistra quando anche la seconda arma la colpisce tra la stiva n°2 e la sala macchine uccidendo nell’esplosione 16 uomini e facendo saltare in aria scialuppe e zattere che ricadendo sui ponti, causano altri morti e feriti. con lo scafo già fortemente inclinato e appruato viene dato l’ordine di abbandonare la nave, ordine che scatena il panico tra i molti soldati che non sanno nuotare e sono terrorizzati dall’idea di doversi gettare in mare. alle 20.41, dopo 8 minuti dal siluramento il conte rosso si impenna mettendo la poppa in verticale fuori dall’acqua mentre le esplosioni, si susseguono sconquassando lo scafo. poi precipita verso i 2.500 metri del fondale trascinando con se centinaia di uomini.
intanto il freccia, il corazziere e il lanciere si mettono in caccia del sommergibile lanciando 39 bombe, 4 delle quali esplodono vicinissime allo scafo britannico. ma dopo 19 minuti sono costretti a desistere per unirsi al pegaso e al procione nel salvataggio delle centinaia di naufraghi mentre freccia, orsa, alpino e i due incrociatori, riprendono la scorta dei piroscafi superstiti raggiungendo tripoli l’indomani pomeriggio.
l’upholder, approfittando della tregua, alle 22 riemerge per ricambiare l’aria prima di immergersi nuovamente e prendere la rotta per malta mentre le siluranti italiane proseguono nell’opera di salvataggio resa più difficile dal buio, dal mare mosso e, dal gran numero di naufraghi.
fortunatamente in quel momento transitano la nave ospedale arno, carica di feriti, proviene da bengasi diretta in patria e, 10 motopesca del gruppo dragaggio salpati da augusta e da siracusa. a terra si sta intanto predisponendo l’organizzazione dei soccorsi anche se non si conoscono le dimensioni della tragedia. la frenetica attività ad un orario inconsueto è il chiaro segnale che qualcosa di veramente importante è successo e la popolazione, comprendendone la gravità, comincia a dirigersi verso le banchine del porto. alle 5,30 del 25 maggio arriva la triste conferma. i caccia corazziere e lanciere, con le coperte stracariche di 540 uomini e numerosi cadaveri, arrivano alla banchina sommergibili seguite poco dopo dalle torpediniere pegaso e procione con a bordo l’incredibile numero di 800 superstiti e 20 salme. su 2.729 uomini, se ne salvano 1.432.
i soldati fradici di acqua e nafta sono fatti salire su autocarri e trasportati nell’interno dove vengono ripuliti, visitati e rivestiti. poi, dopo essere stati rifocillati, sono ricondotti sulla banchina dove giacciono i cadaveri che, privi di piastrina, non possono essere riconosciuti. così devono essere identificati dai commilitoni e quindi riposti in semplici casse di legno. ma al largo ancora numerose salme devono essere recuperate, così i motopesca iniziano una triste spola mentre la nave ospedale arno sbarca altri 60 superstiti. i naufraghi, che hanno addosso la sola tuta da marinaio, sono facilmente identificabili dalla popolazione che fa a gara per dimostrare la solidarietà assistendoli e confortandoli. pur con le privazioni imposte dalla guerra, la gente si prodiga per ospitare, invitare a casa propria, offrire abiti e cibo, ai soldati italiani. anche le trattorie e i ristoranti ospitano i militari rifiutando il pagamento delle consumazioni.
il colonnello del regio esercito vittorio polacco scrisse: “gran parte dei superstiti fu accolta dalla popolazione che dalle finestre lanciava viveri e generi di soccorso e che infine li accolse nelle abitazioni, provvedendo a dare loro generosamente il vestiario, alloggiandoli e provvedendo al vettovagliamento, che era quello che il tesseramento allora concedeva. il tutto senza nulla chiedere ad autorità od enti. augusta praticamente ci adottò”.
i sopravvissuti della conte rosso rimasero ad augusta per una settimana poi, vennero caricati su un treno e portati al nord da dove furono poi inviati ai vari fronti di guerra.
il comandante wanklyn fu decorato con la victoria cross, la più alta decorazione britannica al valore.
 

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"prima dello scudo e la spada"

quando nel 1821 la “aaron manby” venne varata, a dispetto di quelle che era l’opinione degli “esperti”, essa si rivelò un vero successo.
in particolare se si osserva che i primi lavori di manutenzione allo scafo vennero eseguiti nel 1850 ossia, trent’anni dopo il varo.
certo, per l’epoca pensare di costruire una nave in ferro era considerato quanto meno “avveneristico” se non folle (il ferro infatti notoriamente non galleggia).
ma dopo le prime perplessità, l’uso di questo materiale entrò di prepotenza nella costruzione e in particolare in quello delle navi mercantili, soprattutto in inghilterra. già nel 1860 le nuove costruzioni in ferro rappresentavano il 30% del totale e il rapporto era solo destinato a crescere. i vantaggi erano evidenti, non ultimo, quello che il legname da costruzione in inghilterra era praticamente esaurito e pertanto occorreva importarne in quantità sempre maggiori.
se quindi il ferro si affermò rapidamente in ambito civile, non altrettanto avvenne però in quello militare, diffidente e poco fiducioso nelle innovazioni.
in effetti le lamiere allora offrivano troppa poca resistenza alle artiglierie ed erano troppo difficilmente riparabili in combattimento. una nave in ferro perforata sotto al galleggiamento era inesorabilmente condannata all’affondamento, mentre una di legno raramente condivideva una sorte simile.
comunque nella prima metà degli anni 40 l’ammiragliato inglese, considerate le rassicuranti prove offerte dalle navi mercantili, decise di costruire alcune piccole unità sperimentali.
nel 1846 ci fu un timido tentativo di costruire navi di dimensioni maggiori realizzando quattro fregate, ma il progetto venne abortito e gli scafi convertiti in trasporti. così mentre la marina mercantile proseguiva con successo a costruire navi in ferro, con costi minori del 40% rispetto al legno, più leggere del 70% e, più durevoli nel tempo, la royal navy temporeggiava senza decidersi a compiere il grande passo.

eppure già esistevano esempi di enormi navi costruite in ferro come il “great britain” o l’incredibile “great eastern” di brunell (vedi sopra e sotto...).
la tecnica cantieristica si era così consolidata e collaudata, che la marina militare fu letteralmente costretta a ricorrere al ferro per la sua prima fregata corazzata.
un ruolo importante fu quello di uno dei massimi rappresentanti dell’ingegneria navale dell’epoca, j.s. russel , che con la sua influenza, riuscì a far superare gli ultimi dubbi all’ammiraglio sir b.w. walker comunque già favorevole alle innovazioni e alla ricerca. così nel 1859 gli ingegneri isaac watts e john scott russel elaborarono il progetto della “warrior” della cui costruzione fu incaricato il cantiere thames ironworks co.
il progetto era estremamente curato in ogni dettaglio al fine di massimizzare i vantaggi offerti dal ferro. sfruttando gli spazi tra le ordinate, fu ricavato un parziale doppiofondo e lo scafo venne suddiviso con quattro paratie che arrivavano al ponte di batteria. inoltre due paratie corazzate delimitavano trasversalmente il ridotto centrale. in totale esistevano 92 compartimenti stagni, compresi quelli del doppio fondo, le stive e i depositi lungo le murate. le porte stagne, anticipando un idea molto moderna, potevano essere chiuse manovrando delle barre di comando dal ponte superiore.

certamente non erano tutte rose e fiori. il ferro aveva tante buone qualità ma portava con se quelli che per l’epoca rappresentavano gravi inconvenienti.
le bussole magnetiche venivano deviate dalla massa di ferro e si dovette attendere il 1839, quando l’astronomo sir george airey risolse il problema installando nei pressi delle stesse dei potenti magneti in grado di correggere l’errore e contenerlo entro un grado o anche meno.
poi c’era il problema della corrosione che comunque aveva tempi abbastanza lunghi prima di preoccupare e, più grave e difficile da risolvere, la proliferazione sulla carena di incrostazioni e vegetali che riduceva notevolmente la velocità aumentando in proporzione i consumi.
questo inconveniente era stato brillantemente risolto sugli scafi in legno adottando un rivestimento in rame ma, per gli scafi in ferro, l’unica soluzione era rappresentata dall’ingresso in bacino e dalla conseguente pulizia della carena. questa operazione, che comportava l’applicazione di pitture protettive, andava ripetuta almeno una volta all’anno e se questo era possibile presso gli arsenali, ben più difficile era presso le colonie e le basi oltremare dove i bacini erano rari se non inesistenti.
e per un paese colonialista come la gran bretagna, questo era un problema tutt’altro che secondario.

un altro inconveniente nasceva dai contrasti tra watts, russel e gli altri ingegneri coinvolti nella progettazione. questi infatti, provenendo da specializzazioni diverse, portavano in dote pregiudizi che dovevano essere mediati e superati. così nel progetto della warrior non ci furono grandi novità circa i metodi costruttivi. la grande novità era piuttosto nelle forme. il coefficiente di finezza raggiungeva il valore di 6,5 a 1; cosa che favorì il raggiungimento dei una velocità veramente notevole per l’epoca, 14 nodi. la prora a clipper e la poppa rotonda donavano alla nave linee molto eleganti anche se anacronistici visto che le costruzioni immediatamente successive presentavano una prora dritta con un pronunciato sperone, considerato un’arma rivoluzionaria grazie all’innovazione della propulsione a elica (altrettanto recente).

a quei tempi la propulsione era ancora di tipo misto (era considerato un buon test di prova della bontà del progetto il rendimento sotto vela). il sistema velico era a nave puro quindi, con tre alberi distanziati tra loro per lasciar posto ai fumaioli. la tradizione era ancora ancorata ad un passato troppo recente nel quale l’unica forza motrice era rappresentata dal vento e gli “esperti “ (sempre loro…) ritenevano che la vela non sarebbe mai stata abbandonata del tutto visto anche che un buon ufficiale si valutava da come sapeva condurre una nave a vela. ma una nave come la warrior, per avere lo stesso rendimento di una nave a vela, avrebbe dovuto avere il doppio dei 2700 m2 di velatura di cui disponeva. se si fosse adottata una velatura così imponente, le dimensioni dell’alberatura avrebbero influito negativamente sulla velocità raggiungibile a motore per cui, si trattò di scegliere e la scelta cadde su una velatura ridotta, cosa che fece storcere la bocca ai “puristi” della tradizione.
esiste poi una seconda contraddizione di cui occorreva tenere conto. un buon veliero deve avere il centro di gravità posto molto in basso ma una nave da guerra, per disporre di una stabile piattaforma di tiro, deve alzare tale centro e questo obbligava ad un compromesso.

(segue...)
 
(...segue)

quando la warrior venne progettata esistevano due principali ditte produttrici di macchine a vapore. la maudlay e la jonn penn & sons e fu a quest’ultima che venne commessa la costruzione dell’apparato motore.
la specifica prevedeva che le macchine dovevano consentire una velocità di 13,5 nodi necessari per ottenere una dichiarata superiorità sulle rivali. la macchina era a semplice espansione, a due cilindri orizzontali dal diametro di 2,64 metri e il pistone aveva una corsa di 1,2 metri. i giri al minuto erano al massimo 56 , le caldaie erano 10 a tubi di fiamma e la potenza effettiva era di 5269 hp. la velocità richiesta fu raggiunta e superata segnando 14,3 nodi, un record che durò 15 anni. le caldaie rappresentavano comunque il punto debole dell’apparato motore. l’acqua di mare veniva immessa a spruzzo nel condensatore per raffreddare il vapore ma la grande quantità incrostava di sale le tubazioni e bloccava le valvole di sicurezza (sulla "thunder" questo causò una disastrosa esplosione).
la manutenzione era lunga e difficile e nonostante venisse eseguita metodicamente, le rotture e le avarie erano frequenti.
l’elica era a due pale, del peso di 10 tonnellate ed era realizzata in bronzo. per evitare che durante la navigazione a vela, molto frequente per economizzare carbone, l’elica facesse resistenza, veniva sollevata verticalmente grazie ad un telaio che attraversava tutta la poppa, pesante 25 t, scorrevole su apposite guide. l’elica veniva scollegata dall’asse e sollevata dentro ad un pozzo a forza di braccia mediante due grossi paranchi manovrati da quasi tutto l’equipaggio di coperta (cannonieri e fanti di marina). spesso per evitare questo enorme lavoro si preferiva tenere le macchine in funzione a moto lento, in modo che l’elica ruotando, non ostacolasse la navigazione a vela.
altra caratteristica comune a molte navi dell’epoca erano i fumaioli telescopici che potevano essere abbassati a livello del ponte quando le macchine erano spente.

alla fine dell’epoca della vela, l’armamento delle navi da guerra era costituito da batterie di cannoni ad anima liscia e il pezzo di maggiore dimensioni, era il 32 libbre armato con palle piene. esistevano pochi esemplari di cannoni da 68 libbre ed erano limitati ad uno o due per nave. i cannoni ad anima rigata muovevano i primi passi e le granate esplodenti non erano in grado di perforare le corazze anche se potevano devastare le murate in legno.
ma siamo ancora nell’epoca in cui la filosofia è lanciare il maggior numero di proiettili in una unica bordata.
introdotto nel 1846, il cannone da 68 era l’ultimo sviluppo d tali armi ed era logico che fosse prescelto per armare la warrior. ma mentre la nave veniva completata, si rese disponibile il nuovo cannone armstrong a retrocarica da 100, e poi da 110 libbre. così fu deciso di sostituire i previsti 68 con le nuove armi per accorgersi poi che le stesse recavano ancora numerosi difetti di “gioventù” che causarono alcuni incidenti anche gravi. la warrior fu riarmata con pezzi da 7 e da 8 pollici rigati e ad avancarica rinunciando al sano principio dell’unicità del calibro (monocalibro). gli affusti erano ancora in legno, del tipo a carretto, ma a sfregamento posteriore ossia, senza le ruote dietro sostituite da un tacco. i depositi delle munizioni erano ancora come quelli delle navi in legno. sotto il galleggiamento, foderati di lamiera di ottone e ventilati con pompe a mano. per la prima volta venne adottato un sistema telegrafico per le comunicazioni tra ponte e depositi.
per la corazzatura vennero adottate piastre di ferro fucinate da 11,3 cm che venivano inchiavardate su un cuscino di legno di teak dello spessore di 45,7cm. ognuna di esse misurava 130 x 360 cm e rappresentavano il massimo che la siderurgia dell’epoca era in grado di produrre. ogni piastra poi portava un sistema di sporgenze/rentranze di poco più di un cm. lo scopo era di offrire alle piastre un reciproco sostegno ma, oltre ad essere un procedimento complicato e costoso che dilatò i tempi di realizzazione della nave, rendeva assai complicato sostituire le piastre eventualmente danneggiate.
inoltre ogni colpo incassato veniva trasmesso alle lamiere contigue così da diventare, contro ogni intenzione, un motivo di debolezza (questa tecnica verrà abbandonata subito e nessuna costruzione successiva adotterà tale sistema). un altro punto debole era rappresentato dalla mancanza di protezione del timone e dell’agghiaccio mentre la parti non protette erano costruite con normali lamiere. si trattava comunque di zone che non avrebbero compromesso la galleggiabilità.

ma eravamo ancora ai primordi della corazzata e numerosi furono gli errori anche successivi. ad esempio, le prove di valutazione vennero eseguite a nave ultimata quando probabilmente sarebbe stato meglio eseguirle prima. comunque un simulacro di 6x3 metri, che riproduceva la murata della nave, venne bersagliato da una distanza di 200 metri con 29 proiettili senza che nessuno riuscisse a perforarlo. era questa la conferma che era giunto il momento di estendere il concetto di corazzatura a tutte le navi di linea.
la warrior fu dunque una “palestra” nella quale furono sperimentate soluzioni e idee, spesso con errori anche grossolani, ma anche con soluzioni innovative e intelligenti.

quando poi gli artiglieri riusciranno a costruire cannoni e proietti in grado di forare le corazze, avrà inizio il duello tra spada e scudo di cui abbiamo già parlato numerose volte.
 

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colpito e nascosto ovvero l’inutilita’ del cannone.

affronterò ora una analisi, che spero la più completa possibile, su un aspetto tecnico/storico non molto conosciuto. sarà un vaggio piuttosto lungo (nelle mie bozze sono alla 20^ pagina...) ma spero interessante in un campo, quello delle artiglierie navali italiane, a me in parte ignoto e che in buona parte scopro insieme a voi, e della cattiva "nomea" du cui esse godono forse ingiustamente.
buona lettura.



quando la marina era quella della vela e dei galeoni o dei vascelli, la macchina bellica più evoluta a bordo delle navi era il cannone ad avancarica. una bocca da fuoco poggiata su un affusto di legno munito di ruote, un acciarino, palle di ferro o di pietra e una decina di nerboruti cannonieri che lo caricavano e lo spingevano in batteria a forza di braccia. insomma, niente di tecnologicamente evoluto e comunque, alla portata di un “mastro cannoniere” e della sua squadra. il cannone fece la sua apparizione sulle navi intorno alla metà del xv secolo e fino agli ultimi anni del secolo successivo i combattimenti navali erano condotti a brevissima distanza. i cannoni potevano uccidere, ferire, mutilare gli uomini; arrivavano anche a danneggiare le navi nemiche ma, assai raramente portavano all’affondamento dell’unità nemica. la galleggiabilità infatti era difficilmente compromessa da proietti costituiti da palle piene di ferro o di pietra.

ci fu anche un ministro della marina francese che disse “una battaglia navale? si manovra, si incrocia, si tira qualche bordata e poi ognuno si ritira e il mare torna salato come prima”.

con l’evoluzione i cannoni divennero “cerchiati” permettendo cariche più potenti, in seguito la rigatura delle canne aumentò portata e precisione infine, fu introdotta la retrocarica.
e la potenza delle artiglierie divenne tale, da richiedere adeguate contromisure oltre a specifiche conoscenze per progettazione e l’impiego di armi più complesse, anche se bisogna attendere il 1824 prima che sia rivoluzionato il combattimento e vedere che le granate di henri-joseph paixans affondino un vascello.
ad esempio, durante la guerra civile americana, nessuno dei monitori o delle corazzate fu affondato dai cannoni avversari.

e’ comunque l’inizio della rincorsa tra spada e scudo di cui già altre volte abbiamo parlato. da ora i cannoni cresceranno e cresceranno le corazze.
una semplice contromisura che inizialmente funzionò.

e’ in questa fase di rapido progresso tecnologico che viene istituita la figura dell’ufficiale di vascello “specialista” ossia, un ufficiale dello stato maggiore specializzato nella conduzione e manutenzione di artiglierie e armi subacquee. rapidamente i compiti a terra diventarono più complessi e impegnativi, tanto che nel 1898 venne costituito un ruolo di “ufficiali sedentari”. si trattava dei migliori “cervelli” ma anche degli ufficiali ritenuti non idonei all’imbarco, circostanza questa, che portò a considerare questi ufficiali di “seconda scelta” rispetto ai colleghi imbarcati.
questa “nomea” fece sì che il personale si sentisse demotivato rendendo difficoltoso il reclutamento di nuovi ufficiali, tanto che fu necessario bandire un concorso per “personale intelligente e capace di dirigere e comandare” e, per molti, anzi, si esigevano “cognizioni tecniche ed esperienze di primo ordine”. si rese comunque necessaria una “operazione cosmetica” e gli ufficiali sedentari furono rinominati un “specialisti direzionali”.
infine, con lo scoppio della prima guerra mondiale, fu costituito il corpo delle armi navali.

nonostante questa profusione di tecnici e specialisti, il cannone continuava a fare fuoco con risultati non proporzionati alla quantità di proietti sparati contro le sempre più potenti navi da guerra.

furono invece i danni subacquei a colare a picco le navi.

esiste infatti una vecchia, semplice, regola di ingegneria navale secondo la quale per affondare una nave, occorre far entrare quanta più possibile acqua a bordo e non è certo danneggiando l’opera morta (la parte sopra il galleggiamento) che si può far imbarcare acqua.

vediamo ad esempio un famoso evento bellico, la battaglia di tsushima, combattuta il 27-28 maggio 1905 tra russi e giapponesi, nota come “il trionfo del cannone”. innanzitutto la distanza di tiro era ridotta a soli 8.500 metri. poi fu solamente la corazzata zarista “borodino” che esplose in seguito al fuoco nipponico. altre 4 unità furono catturate mentre 9 affondarono per danni sotto il galleggiamento causati da colpi caduti in prossimità.
la battaglia di tsushima segnò comunque una svolta tecnica.
l’esito dello scontro, sommato ai primi telemetri imbarcati, spinsero le marine di tutto il mondo ad intraprendere una nuova strada il cui obiettivo era “colpire per primi”.
di conseguenza la portata dei cannoni sempre più perfezionati aumentò rapidamente (già nel 1892 i 255/40 della classe “emanuele filiberto” raggiungeranno i 14.000 metri).
si avverava quanto previsto dall’ammiraglio saint-bon e dal generale brin, i padri della marina moderna riassunta nella rivoluzionaria “duilio” del 1872.
dai 4.000 metri del 1890 si era passati ai 5.500 dei primi del 900 e ai 10.000 del 1908 (intesi come distanza regolamentari di tiro e non come gittate massime). ma al crescere della distanza diminuiva il numero di “centri”.
dal 5% dei giapponesi di tsushima, si era scesi al 3,33% dei tedeschi dello jutland (contro il 2,17 degli inglesi). durante la grande guerra poi, su 108 navi da guerra affondate, solo 21 furono perdute per merito delle artiglierie avversarie, 57 furono affondate da aerei, 88 per mezzo del siluro, 19 si autoaffondarono, 1 fu persa per naufragio, 1 per collisione, 1 catturata e 3 esplosero per incidenti interni.

veniamo così alla ii guerra mondiale e in particolare agli scontri tra italiani e inglesi in mediterraneo tra il 1940 e il 1943, oggetto di questo articolo e, cominciamo a vedere quali erano le armi in dotazione alla regia marina.

ma prima facciamo un rapido passo indietro nella storia...
 

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con l’installazione a bordo delle navi del cannone, è nato il problema del tiro navale che è progressivamente aumentato di difficoltà all’aumentare della gittata delle armi e, della velocità delle navi.
il caso tipico del tiro navale è quello in cui il bersaglio da colpire è rappresentato da un’altra nave, ma non solo...
nel primo caso il bersaglio si trova sul nostro stesso piano orizzontale e probabilmente si sta muovendo, si tratterà di una nave nemica?
poi c’è il caso in cui il bersaglio non si trova sul nostro piano orizzontale ed è fermo. e’ il caso del tiro contro costa.
infine c’è il caso in cui il bersaglio è in movimento ed è su un piano diverso, si tratta del tiro contraereo.

sono tre aspetti diversi che richiedono tre soluzioni diverse.
noi ci concentreremo nel caso “per eccellenza” ossia, il tiro navale.
senza entrare eccessivamente nel dettaglio, possiamo dividere il problema in tre parti:
la balistica interna, la balistica esterna e, la cinematica.

iniziamo a parlare di balistica interna.
si tratta dello studio di ciò che avviene all’interno dell’arma al momento dello sparo.
quindi cominciamo vedendo come si carica un cannone.
caricamento ordinario: il proietto viene introdotto nella sua sede da appositi “calcatoi” poi nella”camera a polvere” si introducono dei “cartocci” ossia, dei pacchi di stoffa contenenti la polvere da sparo. i cartocci posso essere da uno a tre a seconda che si spari in “prima”, in “seconda” o in “terza” carica. e’ il sistema adoperato per cannoni da 203 e oltre.

caricamento rapido: il proietto si introduce nel cannone e successivamente si posiziona un bossolo di ottone tronco-conico (per consentirne la rimozione). sistema per armi da 120 a 152 mm.

caricamento simultaneo: il proiettile e il bossolo sono uniti in una “cartuccia”. sistema impiegato per cannoni da 65 a 100 mm e per tutte le armi portatili o di piccolo calibro.

facciamo ora l'autopsia ad un proiettile.
innanzitutto diciamo che esso poteva essere dirompente, perforante o speciale come gli illuminanti.
i primi due portavano una carica esplosiva e una spoletta ma nel primo caso il corpo del proiettile era di acciaio di basso spessore, la carica di esplosivo era molto grande e la spoletta si trovava nell’ogiva. nel secondo invece il corpo del proiettile era di acciaio molto spesso e duro, portava una carica di tritolo minore e una spoletta ritardata (circa 1/10 di secondo) in modo che l’esplosione avvenisse dopo che era stata perforata la corazzatura. siccome il profilo di questo tipo di proiettile era ben poco aerodinamico, lo stesso era dotato di un cappuccio di alluminio che migliorava la gittata fino anche al 30%.
le spolette erano dei veri capolavori della tecnica. dovevano essere sufficientemente robuste da non essere danneggiate durante lo sparo, abbastanza sensibili da funzionare anche contro bersagli leggeri e, molto sicure per chi le doveva maneggiare.
qualunque fosse il tipo di proietto, esso recava uno o più anelli di rame detti “cinture di forzamento” il cui compito era di “incastrare” il proietto nella sua sede, assicurare la tenuta alle fughe di gas subito dopo l’esplosione della carica, generare la rotazione sul proprio asse del proietto intagliandosi nelle rigature della canna.
alcuni proietti erano forniti di “codine luminose” che si accendevano autonomamente allo sparo generando un punto luminoso che poteva essere seguito nel tiro notturno. un po’ come i traccianti delle mitragliatrici.
abbiamo parlato dei proiettili nominando i "calibri" degli stessi. dal calibro è possibile determinarne le dimensioni indicative con semplici formule. il peso ad esempio, è dato dal calibro al cubo, moltiplicato per una costante compresa tra 14 e 16, mentre la lunghezza era ricavabile moltiplicando per 4,5. se prendiamo ad esempio un proiettile da 381 mm, avremo una lunghezza di circa 1,7 metri e un peso di 830 kg. vedremo che sono valori non molto distanti dalla realtà.

per lanciare un proiettile lungo 1,7 metri e pesante 830 kg a una distanza di oltre 45 km, occorre una energia enorme. questa è fornita dalla carica di lancio detta comunemente, ma erroneamente, “polvere” contenuta nei cartocci o nel bossolo. ho detto che si chiama erroneamente polvere perché in realtà si tratta di bacchette forate le cui dimensioni variano in funzione dei calibri a cui sono destinate. queste bacchette cono dette “grani” e possono essere di balistite o cordite, sostanze che bruciano molto rapidamente sviluppando grandi quantità di gas e producendo pochi residui della combustione.

dopo questa rapida analisi della balistica interna non certamente completa, vediamo ora altrettanto sommariamente la così detta “balistica esterna”.
il nostro proiettile ha lasciato la bocca del cannone e vola verso il suo bersaglio. certo, se noi lo avessimo sparato nel vuoto, la sua traiettoria sarebbe una parabola in cui la velocità iniziale è uguale a quella finale supponiamo di 900 m/s. ma l’aria c’è e provoca su di esso una azione di frenatura per cui la parabola percorsa sarà diversa da quella teorica e la velocità di arrivo sensibilmente minore (indichiamola in 700 m/s). inoltre nel suo viaggio, incontra altri “fattori di disturbo”. il vento, la pressione, la temperatura (detta densità balistica). ancora, la rotazione impressa dalla rigatura della canna, ha si stabilizzato il proiettile per effetto giroscopico, ma a causa del peso proprio del proietto ne provoca una deviazione dalla traiettoria.
a questo aggiungiamo le seguenti variabili: usura della canna con conseguente variazione della velocità di uscita e quindi della gittata. temperatura e qualità della conservazione delle “polveri”. movimento della nave e conseguente “vento relativo”. tutte queste componenti erano prese in considerazione e entravano nei complessi calcoli di direzione del tiro.

parliamo ora della cinematica. la nave si muove nel suo elemento con una propria rotta e velocità e spara contro un’altra nave che si muove su una propria rotta con una propria velocità ad una distanza da noi per ora ignota. il grosso problema era ricavare con gli strumenti dell’epoca delle “soluzioni” precise in tempi rapidi così da dirigere il tiro con precisione e velocità in modo che i colpi cadessero nel “punto futuro” cioè nel punto in cui si troverà il bersaglio quando il nostro proiettile avrà terminato la sua corsa.

in un mondo senza radar e senza computer, con armi che arrivavano ampiamente oltre i 30 km la cui traiettoria di volo superava i 60 secondi, determinare con esattezza alzo e brandeggio suscita ammirazione e stupore.

e non abbiamo considerato che ci troviamo su una piattaforma instabile e con il caos della battaglia...
 

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...sempre un piacere leggerti...!!!!

allora proseguo:-)

i direttori di tiro avevano a disposizione alcuni strumenti.
il telemetro, di cui parlammo tempo fa, è uno strumento ottico che fornisce la distanza istantanea del bersaglio. ne esistevano a coincidenza e stereoscopici.
quello del telemetrista era un ruolo molto affaticante, tanto che erano esonerati dalle guardie e da tutti i lavori pesanti. per questo erano soprannominati “le signorine”.
l’inclinometro era anch’esso uno strumento ottico e permetteva di misurare la parallasse ossia, in pratica indicava la rotta seguita dal bersaglio.
il gimetro invece non era uno strumento ottico ma era indispensabile per ricavare tutti gli elementi del moto del bersaglio ricavando il “punto futuro”.
in sostanza misurava in continuazione il brandeggio ricevuto dall’apparecchio di punteria generale (a.p.g.) ricavandone la variazione nell’unità di tempo rispetto ad una direzione fissa ottenuta con un giroscopio cioè, che non risentisse delle oscillazioni della piattaforma.
l’apg era il sistema utilizzato per la punteria centralizzata di tutte le armi.
si trovava nella “stazione di direzione dei tiro (sdt) nella posizione più elevata del “torrione”.
per ultimo, il direttore si avvaleva di anemometri, barometri e termometri necessari a calcolare la densità dell’aria.

la centrale di tiro era il vero cervello. riceveva tutte le informazioni raccolte dagli strumenti, teneva conto della temperatura e dell’umidità nei depositi delle polveri nelle ultime 48 ore, elaborava tutto e forniva i dati di alzo e cursore alla sdt.

ora si poteva fare fuoco!
il direttore osservava con il binocolo il percorso dei suoi proiettili e soprattutto il loro punto di caduta apportando le eventuali correzioni dettate in primo luogo dall’esperienza e dalle capacità individuali.
la salva sarà “raccolta”, “lunga” o a “cavallo”?

a questo punto si devono fare due considerazioni.
1 – la probabilità di colpire. la percentuale di successo dei grossi calibri sparati da grandi distanze si aggirava intorno al 7 per mille.
2 – la dispersione delle salve. seguendo la storiografia ufficiale dovremmo affermare che le nostre salve erano molto “aperte” con grande dispersione mentre quelle inglesi, erano più raccolte.
vedremo in seguito che questo non è sempre vero.

certamente bisogna considerare che le cariche risentivano della stabilità chimica, che i proietti risentivano delle tolleranze di costruzione e che non si poteva sperare che fossero tutti esattamente uguali fra loro. il risultato era una differenza di velocità iniziale tra un colpo e l’altro. questo causava una certa dispersione che a 20.000 metri di distanza era abbastanza evidente.

abbiamo detto che abbiamo fatto fuoco. per non confondere le nostre salve con altre sparate eventualmente da nostri alleati, un “avvisatore di caduta salve” segue la traiettoria e avverte il direttore che la salva sta per raggiungere il bersaglio.
il direttore osserva le colonne di acqua, valuta di quanto le stesse sono errate in cursore e ordina i “contro scarti” cioè le correzioni date in “millesimi” ossia una misura angolare.
ad esempio “rosso 4” significava 4 millesimi di grado sulla sinistra. una volta che il tiro era “centrato” ossia sul bersaglio, il direttore valutava se le stesse erano “corte”, “lunghe” o a “cavallo”. ora i controscarti erano forniti per l’alzo e si sarebbe sentito dire “allunga 5”, “accorcia 6” valori espressi in centinaia di metri. lo scopo era di portare il tiro a “cavallo” o perlomeno, di fare “forcella” cioè inquadrare il bersaglio tra i colpi di una salva.

tutto mentre l’unità nemica contro manovrava per sottrarsi al fuoco con scarti improvvisi.

(in allegato le direzioni di tiro - note come "il cappello da carabiniere", della cavour affondata e della roma)
 

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